Inizia la lunga giornata dell’INVALSI con il suo carnevale di polemiche, tensioni e fatica, che ormai da anni accompagna il momento più critico di tutto l’esame di stato conclusivo del primo ciclo.
Ho vissuto questo giorno sin dalla prima introduzione delle prove, a scopo statistico nel 2008 e nell’anno successivo come effettiva parte integrante dell’esame di stato, prima come docente, poi come presidente di commissione, infine quest’anno anche come genitore, essendo giunta mia figlia al termine del primo grande segmento del suo corso di studi.
Si tratta sicuramente di un elemento di grande criticità, posto a conclusione di un triennio di scuola secondaria di primo grado già di per sé problematico, che andrebbe completamente rinnovato e invece vede da anni una continua stratificazione di provvedimenti che lo hanno reso, nel giro di pochi decenni, un vero e proprio rudere.
Di questa continua stratificazione, avvenuta al posto di un abbattimento in favore di una ricostruzione su nuove e magari più agili basi, è emblema l’esame conclusivo che piomba con la sua elefantiasi innanzitutto sui ragazzi, che fra l’altro non si sono mai cimentanti prima con un esame, vista l’unificazione della scuola primaria e secondaria di primo grado nel primo ciclo di istruzione e la conseguente dismissione del vecchio esame di quinta elementare, ma anche sugli operatori della scuola, che cercano di governare una complessa macchina ripetitiva e spesso farraginosa: si pensi già solo alla quantità delle prove scritte, che nel tempo sono diventate ben quattro, di cui una, quella nazionale INVALSI, appunto, verte nuovamente su due ambiti appena oggetto di prova, l’italiano e la matematica, seppure in maniera differente.
Altra problematica è quella della valutazione, anche qui controversa, con una media matematica su sei prove cui si aggiunge un voto di ammissione, e la considerazione di un percorso triennale, o meglio di un decennio, trattandosi di un ciclo che affonda le sue radici nella scuola dell’infanzia, con tutte le variabili imposte da situazioni personali, sociali e ambientali.
In tutto questo panorama si inserisce la famigerata prova INVALSI, osteggiata prima di tutto dai docenti, anche a causa di un qualcosa che si vede come calato dall’alto e ancora ben lontano e sganciato, nella sua configurazione, dalle modalità di insegnamento e soprattutto non curante di tante situazioni oggettive diffuse in tutta Italia.
Basandomi sulla mia esperienza, sia come docente che come presidente di commissione, vedo con molta perplessità l’esame conclusivo in sé e la prova nazionale è ovviamente gran parte di questa perplessità.
Parto dal presupposto che i test INVALSI, intrinsecamente considerati, non siano da condannare, seppure ovviamente da migliorare; l’idea di una misurazione degli standard non è infatti a mio avviso sbagliata, anzi è un ottimo strumento per il sistema nazionale dell’istruzione al fine di avere un metro di paragone uniforme su tutto il territorio, ma anche fra esso e l’esterno, metro che ovviamente non farà altro, almeno al momento presente, che impietosamente esporre il quadro disastroso del livello delle competenze degli italiani.
Inoltre anche, attraverso la tipologia di misurazione, vagliare quali siano le misure da intraprendere per un innalzamento della qualità del sistema scolastico sarebbe il risvolto fondamentale e positivo della prova standardizzata.
Ma proprio perché si tratta di una misurazione e di uno strumento, il test INVALSI non può essere una valutazione, che mai si può ridurre a un mero fattore numerico: è una rilevazione e come tale deve essere trattata.
Se si vuole che tutti gli alunni, alla conclusione del loro primo ciclo, effettuino tale misurazione, potrebbe considerarsi valido l’inserimento della prova INVALSI nel corso dell’esame, a patto che questa non concorra alla valutazione, che invece va affidata esclusivamente alla commissione, ridotta, in questa circostanza, a operare invece come mero amanuense, privo di qualunque operare critico e personale nei confronti delle prove degli alunni. Il risultato potrebbe quindi essere proposto a parte, magari nella certificazione delle competenze che viene consegnata alle famiglie.
Rimane comunque il dubbio del notevole carico che, nel corso dell’esame di stato, grava prima di tutto sugli alunni, poi anche sui docenti che si trovano ad affrontare un estenuante lavoro di somministrazione e poi trascrizione delle risposte e dei risultati, spesso non esente da difficoltà di natura tecnica, oltreché strutturali, come più volte avvenuto (https://www.musicamultimedia.net/amici/2011/06/21/alle-prese-con-linvalsi/).
Si spera che finalmente, magari approfittando dell’euforia riformista che caratterizza la politica degli ultimi tempi, si cominci a considerare l’idea di una revisione globale dell’esame di Stato conclusivo del primo ciclo e della scuola secondaria di primo grado in generale.
La road map potrebbe a mio avviso prevedere in primo luogo, come già accennato prima, l’uscita della prova INVALSI dall’esame per confluire in un altro momento, inserendo il risultato nella certificazione delle competenze. Si tratterebbe di un primo periodo transitorio, nel quale intanto tutta la didattica andrebbe sottoposta a revisione assieme all’ordinamento stesso della scuola secondaria di primo grado, per dare più spazio, tempo e risorse alla costruzione delle competenze fondamentali dei due ambiti linguistico/umanistico e logico-matematico, abbandonando un dualismo che oggi è proprio di questo segmento di istruzione nel quale convivono ancora modalità e tempistiche che non sono sicuramente in linea con l’idea di acquisizione di competenze propria della didattica che il test INVALSI misura e uno spirito invece meramente addestrativo nei confronti delle prove standardizzate, che non può in alcun modo portare a un successo strutturale.
Finita la transizione, monitorata dal continuo svolgimento delle prove INVALSI al di fuori degli esami, questi ultimi potrebbero anche essere del tutto basati su prove standardizzate o comunque miste, come avviene per il secondo ciclo.
Ma tutto il percorso non può prescindere da un assunto fondamentale: l’innalzamento dei livelli culturali, e quindi degli esiti misurati, passa sicuramente da un sistema di istruzione adeguato che non può però non essere assistito dalla creazione di condizioni favorevoli, quali il miglioramento delle condizioni sociali, l’abbattimento della disoccupazione e del degrado in cui versano ancora tante famiglie, l’attenzione concreta per il disagio, la realizzazione di ambienti, insomma la creazione di quel contesto di vivibilità che garantisca la dignità propria di tutti gli esseri umani.
Solo allora una sinergia fra tutte le varie componenti potrà finalmente dare vita a un progresso culturale, sociale e umano concreto e quindi misurabile, in un’ottica di miglioramento continuo.
Una ricetta apparentemente semplice e forse ovvia, ma che ancora non vede attuazione, neanche in forme simili che ne condividano almeno in parte gli assunti.