«Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più».
(Mt 2,18)
Nella sequenza dei primi giorni del Tempo di Natale, dopo Santo Stefano e San Giovanni Evangelista, la Liturgia pone il 28 dicembre la festa dei Santi Innocenti, martiri, i bambini di cui il re Erode fece strage non avendo ottenuto informazioni dai Magi circa l’esatta collocazione di Gesù. Un episodio di grande crudezza, questo della strage degli innocenti, se lo si legge cercando di immedesimarsi nella situazione, soffermandosi sulla portata del gesto di un re sprezzante di qualunque pur minimo senso di umanità, capace di un gesto di un’efferatezza fuori da qualunque misura, purtroppo non raro ieri come anche oggi, accecato dalla paura di perdere il proprio potere.
La presenza del re Erode è un elemento utile all’esatta datazione della vicenda storica di Gesù; il re morì nell’anno 750 di Roma, quindi nel 4 a.C., pertanto la nascita di Gesù deve essere collocata tra il 7 e il 6 a.C., negli ultimi anni di vita dello stesso re Erode; la datazione dell’inizio dell’era cristiana al 754 di Roma è dovuta a un errore di calcolo risalente al VI secolo.
Al di là delle curiosità storiche la festa del 28 dicembre pone di fronte a uno dei più inquietanti interrogativi e alla risposta che la fede è chiamata a dare: il perché del dolore innocente e quale sia la posizione di Dio di fronte a esso.
“Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata”: di fronte a un dolore come questo non ci sono parole, non c’è spiegazione razionale che possa mitigare né tanto meno eliminare le lacrime, di fronte al non-senso di una violenza cieca è ben difficile trovare una qualunque risposta.
Il razionalismo interroga la fede: «Dov’è Dio?», «Perché non impedisce tutto questo?»; occorre trovare delle risposte a una disperazione che avanza e rischia di diventare intollerabile. “Dov’è Dio?” o forse “Dov’è l’uomo?” soprattutto quando si è di fronte alla violenza, ma comunque l’interrogativo è sempre in agguato e in questo caso ancora più enigmatico della salvezza del solo Gesù e non degli altri bambini innocenti.
L’unica risposta possibile la danno la fede e la speranza, ma è talmente lontana dallo schema razionale umano da sembrare quasi impossibile, mentre in realtà è la sola che possa dare una chiave di lettura.
Il pianto non viene consolato, il dolore e il non-senso non vengono eliminati, ma Dio entra in essi con il suo Figlio che assume su di sé ogni elemento umano per trasfigurarlo nella sua risurrezione. È proprio la sua gloriosa risurrezione infatti che rischiara ogni oscurità e ogni tenebra perché è la meta conclusiva, la tappa finale, di un “entrare dentro“, un “passare attraverso” la condizione umana con tutte le sue contraddittorietà della sofferenza, del dolore e della morte, proprio nella loro suprema inspiegabilità.
Il pianto quindi non viene consolato, ma di più: viene riscattato. La morte, inspiegabile, violenta, diviene il luogo in cui risplende la luce della risurrezione e della vita.
Fede: ancora una volta è la parola chiave e protagonista della fede, nel Vangelo del 28 dicembre, è San Giuseppe, figura centrale dell’infanzia di Gesù, vero custode della fragilità umana assunta e condivisa dal Figlio di Dio. Come ha già risolto con decisione assoluta il suo dramma interiore prendendo con sé la sua sposa all’annuncio dell’angelo in sogno, nuovamente assume la propria difficile responsabilità accettando di farsi esule, “migrante”, per utilizzare un termine della nostra attualità, per salvare il figlio. Un’adesione incondizionata alla volontà di Dio, senza riserve, fino a conseguenze estreme, senza se e senza ma, senza condizioni; un esempio di accettazione e di realizzazione della propria responsabilità, impossibile se non attraverso uno sguardo di fede di fronte alle profondità dell’ignoto e di fronte alla concretezza dei rischi, ancora più nobile se si considera che è una vicenda avvenuta nell’ambito di una promessa, di una speranza ancora solo intravista.