Cosa sarebbe accaduto se Vivaldi fosse vissuto nel XXI secolo e non al suo tempo? Probabilmente un paradosso temporale, di quelli alla Star Trek: semplicemente la musica non sarebbe come la conosciamo oggi, perché un pezzo importante dell’evoluzione del pensiero musicale occidentale mancherebbe all’appello; ma un paradosso temporale è anche possibile solo nella mente di un artista e se si tratta di un compositore capace come Max Richter, ecco che improvvisamente si materializzano all’ascolto Le Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi, in un’ottica assolutamente nuova e geniale, totalmente ricomposte secondo la sensibilità di un musicista del nuovo millennio, con tutte le apparenti linearità che sottendono le grandi contraddizioni che il nostro tempo eredita dal secolo passato.
Nella nostra musica contemporanea non esiste più la contraddizione o la contrapposizione all’interno del linguaggio musicale, così come forse non esisteva al tempo di Vivaldi; non c’è volontà di rottura, non c’è volontà di stupire o far inorridire; semplicemente c’è la musica, ci sono anche – e in grandissimo numero – formule e convenzioni consolidate, e tutto, come in un labirinto, si perde e vaga per sentieri sempre nuovi ma non necessariamente appellandosi a un bisogno di taglio netto col passato. Alcune tendenze estetiche, dicevamo, sono consolidate e sono alcune che hanno avuto avvio già alla fine del Novecento, quando si è abbandonato lo strapotere delle avanguardie alla ricerca di una comunicativa più vicina alla sensibilità dell’ascolto, si è data una rilevanza a strutture ritmiche ripetitive, a una semplificazione del materiale che non necessariamente, almeno nei casi più nobili, è coincisa con una banalizzazione.
Max Richter è per questo ben sensibile al suo tempo: ha trovato la sua strada senza scadere nel trito di un pericoloso accostamento alla musica di consumo, nel contempo riesce ad avere una voce originale e anche una sua propria coerente idea del linguaggio musicale contemporaneo che vuole comunque tenere sempre ben saldi i fili della storia.
Ecco così che si affaccia ancora nell’estetica musicale il problema del rapporto col passato. C’è chi malignamente dice che ogni qual volta un compositore perde un po’ della sua fantasia e della sua creatività si rivolge al mito del passato, per coprire il suo vuoto: è accaduto quando Stravinsky fece la sua “virata” neoclassica, ma già in quel caso si vide che la cosa era ben più profonda di una semplice mancanza di fantasia, visto che, anzi, il grande compositore dimostrò una forza creativa almeno pari al suo periodo precedente.
Max Richter, proprio come Stravinsky con Pulcinella, si mette di fronte a un materiale musicale storicamente ben definito e pure universalmente noto come Le Quattro Stagioni e si accosta al grande capolavoro vivaldiano intanto con un rispetto esemplare: nessun intento di parodia, nessuna ironia, ma un modo di rivivere dall’interno l’esperienza musicale.
Le note di Vivaldi ci sono tutte, di volta in volta in modo differente e soprattutto su piani differenti, perché questa musica di Richter è in ultima analisi un rapporto di diverse profondità e prospettive con la storia; esemplare è a tal proposito l’inizio della Primavera: nei primi quarantatré secondi introduttivi (Spring 0) il materiale vivaldiano è posto sullo sfondo, in lontananza, mentre a partire dal vero e proprio primo movimento (Spring 1) si pone in primo piano e lo sfondo diviene una serie di armonie tenute, in contrasto non solo per movimento ma soprattutto per densità armonica, con una vera e propria trasfigurazione musicale di quanto già è presente nella nostra consolidata memoria del capolavoro di Vivaldi. Ma già in questo primo movimento si assiste a un procedimento tipico di tutta l’intera composizione, cioè il continuo sfalsarsi dei piani opposti: ciò che è sullo sfondo più o meno lentamente si porta in avanti e viceversa, come in un gioco continuo di specchi, fino a trovare alcuni punti, come ad esempio in Spring 3, in cui il materiale settecentesco e quello del ventunesimo secolo si trovano consistenti. In queste sezioni si trovano i momenti di massimo splendore e massima reinvenzione: tutto Vivaldi è in questa musica nuova e questa musica nuova riempie completamente Vivaldi ed è qui che proprio sembra di dimenticare che ci troviamo di fronte a una ricomposizione e in maniera trasparente pare proprio che il “Prete Rosso” si sia paradossalmente rimaterializzato nel nostro tempo o che sia tutta “farina del sacco” di Richter.
È poi interessantissimo notare quanti spunti di propulsione ritmica si ritrovino nell’originale di Vivaldi e quanto basti poco a Richter per rendere questa musica in perfetta sintonia con le scansioni moderne: basta aggiungere o sottrarre una suddivisione per creare subito qualcosa di nuovo, inaspettato e originale, per portare Le Quattro Stagioni nel mondo compositivo contemporaneo, basta interrompere il tessuto musicale in crescendo in maniera brusca per dare un colpo di novità e freschezza. Sono tantissimi i piccoli interventi proprio sulle note esistenti e sul discorso già presente che non è possibile ovviamente elencarli tutti, ma sicuramente è esemplare il modo in cui Max Richter riesca a creare sempre una novità perfettamente coerente e a far rivivere questo grande capolavoro in un’ottica e una prospettiva assolutamente nuove e originali.