Riflessione (non recensione) sulla “prima” alla Scala
L’appuntamento del pomeriggio di S. Ambrogio è la prima alla Scala in diretta TV, quest’anno con uno spettacolo del tutto nuovo, una carrellata di pagine d’opera, di cui non è chiaro per la verità il nesso, se non una (comprensibile) diffusa e lugubre ombra di morte, in un teatro vuoto, con l’orchestra in platea e il direttore di spalle non al pubblico (grande assente della serata) ma al palcoscenico.
È il teatro in tempore pestis, brandelli della lenta agonia dell’ “opera-museo”, che cerca temporaneamente di reinventarsi, rinascere sulle sue ceneri – non solo causate dalla pandemia -, in attesa della riconsegna alla sua routine.
Ma la pandemia è uno spartiacque; chi attende il ritorno ai precedenti, precari, equilibri tende a nascondersi, più o meno coscientemente, un’evidente (tragica) verità: quanto era non sarà più, sta ora più che mai all’estro, all’ingegno e all’humanitas ri-costruire il futuro, che non ripeta il passato, ma lo comprenda e lo sappia integrare in una concreta visione del presente e dell’avvenire. In questo la musica in particolare e l’arte in generale devono riprendere il loro ruolo centrale, ma soprattutto riacquisire la vitalità oggi spenta da grette ristrettezze di orizzonti, imparando anche dal passato la necessità del nuovo che non significa tempus destruendi delle esperienze vissute, ma visionarietà, grandi prospettive, spazi liberi e aperti.
E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139): non è solo la comprensibile voglia di luce alla fine di un tunnel, perché sono stelle nuove, quelle della spiaggia di un nuovo e mai visto emisfero.
Che l’oggi non sia solo un rivolgere lo sguardo a un passato di cui accontentarsi di ripercorrere i passi.