Eccoci di nuovo, con Il Barbiere di Siviglia, al Teatro Massimo Bellini di Catania per la ripresa della stagione lirica 2020 interrotta dalla pandemia.
Solo adesso il teatro ha potuto riaprire a pieno regime, a totale capienza con green pass e mascherina obbligatori, dopo qualche spettacolo prima all’esterno, poi solo con pochi spettatori, come per Norma dello scorso settembre: speriamo che duri.
L’allestimento, proporzionato a una istituzione lirica di media grandezza, sempre a un passo dal baratro e in mezzo a grandi difficoltà, com’è purtroppo il Massimo di Catania, non era male. Essenziale ma curato nella regia, con scene e costumi tradizionali, ha dato una lettura dell’opera “così com’è”, senza inutili orpelli, riportando personaggi e situazioni alla loro fissità che affonda le sue radici nella Commedia Nuova menandrea, passando per le secolari tradizioni della commedia dell’arte e della farsa, per far risaltare il genio rossiniano, capace di estremizzare e portare al parossismo formule consolidate del teatro settecentesco, fino a farle quasi esplodere o implodere sotto il peso di un vorticoso movimento continuo.
Il terreno preparato dalla regia non ha trovato però riscontro prima di tutto nell’orchestra, poco agile e spesso non a suo agio nel dare risalto agli splendidi impasti timbrici dell’essenziale quanto efficace strumentazione rossiniana, poi anche in alcune voci (Rosina in primis), decisamente sottotono, arrancanti dietro il ritmo serrato della partitura e addirittura in ombra ogni volta che si spostavano più sul retro del palcoscenico.
Ma l’opera è sempre l’opera e, purché non turbata da estremismi innovatori (in questa dimensione il teatro è pur sempre un’istituzione museale), è sempre un piacere andarci, soprattutto poi se il protagonista è quel grande genio di Rossini…