Il Trittico non è certo fra le opere più frequentate né in teatro né in sala d’incisione; negli ultimi tempi a causa di un’evidente saturazione primariamente dei cataloghi e dei cartelloni, ma anche per una giusta naturale tendenza dell’artista a interessarsi dell’inusitato, si assiste a una lieve controtendenza che comunque non rende giustizia al capolavoro pucciniano. Purtroppo è opinione comune che i tre atti unici siano una sorta di emblema di una crisi del linguaggio del compositore, iniziata già ai tempi della Fanciulla del West, e proseguita attraverso la Rondine e il Trittico fino a sfociare in una nuova stagione favorevole con l’ultima incompiuta Turandot (che, seguendo quest’ottica, in realtà dovrebbe essere il coronamento di questa crisi). Se si paragona infatti allo stile pucciniano delle opere fino allo spartiacque del 1900 con Tosca, effettivamente le opere dalla Fanciulla in poi mostrano un allontanamento da una certa cantabilità che comunque veniva inglobata nella ricerca di un linguaggio più aggiornato sia per quanto riguarda il declamato delle parti vocali sia sopratutto per l’orchestrazione e l’armonia.
Già La Fanciulla del West mostra un balzo prepotente verso una prospettiva europea alla ricerca (e alla conquista) di un linguaggio più approfondito e di sviluppi più consapevoli soprattutto nella soluzione di quella tanto discussa crisi del linguaggio musicale occidentale. Puccini carpisce il segreto di una comunicabilità che si fonde con l’espansione lirica dei momenti più salienti: la conciliazione delle esigenze della modernità con quelle del teatro d’opera italiano.
Il Trittico è uno dei risultati più alti della maturità pucciniana, dove l’estetismo decadente viene vissuto in una vena timbrica fuori dal comune espressivamente tesa a sostenere una poetica che se pur lontana ormai (direi affrancata) dall’irruenza patetico-sentimentale delle opere precedenti, non rinuncia ad una matura esposizione di sentimenti umani.
L’incisione che prendiamo come riferimento è questa diretta da Lorin Maazel con un cast vocale veramente d’eccezione. La particolarità è anche quella di poter gustare due modi di vivere l’opera (di Puccini in particolare) perfettamente intersecantesi in una eccellente sintesi.
Le voci, infatti, sopratutto quelle più “anziane”, portano la loro grande carica emozionale e la pluriennale esperienza in ruoli che ereditano una certa prassi esecutiva dalle origini pucciniane: è il caso della splendida Suor Angelica di Renata Scotto o dell’ironico Gianni Schicchi dell’altrettanto glorioso Tito Gobbi, teatralissimo nella sua accentuazione di alcune proposte sceniche dell’autore. Soprattutto se confrontate con alcune edizioni più recenti, sicuramente più attente alla lettera, questa appare più fresca, più umanamente credibile, senza contare l’indubbia qualità delle voci. Impossibile inoltre non evidenziare la smagliante forma di Placido Domingo, perfettamente credibile nei due ruoli assegnatigli, e la delicatezza della Cotrubas, dalla voce elegante e preziosa.
Ma il grande punto di forza è Lorin Maazel, grande direttore pucciniano, nel senso più moderno del termine, capace di una lettura lucida, che nel contempo non rinuncia all’effetto, al pathos, a tutto quanto Puccini, da grande autore di teatro qual era, riusciva a inserire nel suo aggiornamento linguistico conciliandolo con le proprie esigenze stilistiche ed espressive, tutto questo senza perdere di vista l’equilibrio e la correttezza delle prospettive storico-linguistiche.
Un Trittico veramente da collezione, un’edizione di riferimento, completa sotto tutti i punti di vista.