Madama Butterfly: un romanzo psicologico in musica
Quando Puccini, all’inizio del secolo, si accinse alla composizione della sua sesta opera, Madama Butterfly, era già un musicista pienamente affermato nel panorama operistico internazionale. La ricerca di un nuovo soggetto per l’opera fu, come sempre per Puccini, molto difficile. Si risolse per un adattamento della piéce teatrale Madame Butterfly di David Belasco, a sua volta una riduzione del romanzo di John Luther Long, con la scelta, quindi, di un soggetto che si inseriva nella moda di esotismo nipponico di fine-inizio secolo, introdotta da un romanzo di Pierre Loti nel 1887, Madame Christanthéme, che tratta un argomento affine a quello di Long e Belasco.
L’elemento di base nelle fonti letterarie della Butterfly era il senso di totale incompatibilità tra due modi di vivere, quello occidentale e quello orientale, e la denuncia dello sfruttamento coloniale.
La grande novità, originalità ed unicità nel corpus delle opere di Puccini consiste, però, nel fatto che Butterfly è strutturata esclusivamente intorno alla coerente evoluzione di un solo personaggio principale femminile, Cio-Cio-San.
Sulla scena non vi è, come ad esempio nella movimentatissima e ricca d’azione e colpi di scena Tosca, uno svolgimento di eventi basati sulla coralità delle azioni dei personaggi: in Butterfly il dramma si sviluppa mettendo in scena esclusivamente il travaglio psicologico della protagonista che vede naufragare i propri sogni di adolescente innamorata. Il luogotenente Pinkerton della marina degli Stati Uniti non ne comprende e rispetta la dignità, calpestandone i sentimenti e divenendo causa del supremo sacrificio d’amore.
Il tema del colonialismo spregiudicato e sprezzante si innesta quindi su quello, tipicamente romantico e, per i musicisti, di ascendenza wagneriana, dell’amore tragico e mortale, dell’annichilimento erotico (il liebestod); nel caso di Butterfly, però, questo tema è ancora più tragico per l’assenza di una figura di amante maschile eticamente valida e compartecipe del dramma; fatta eccezione, infatti, per il pallido riscatto della figura di Pinkerton nella sua aria finale “Addio fiorito asil”, il protagonista maschile è solo colui che innesca il dramma di Cio-Cio-San, senza prenderne parte; allo stesso modo tutti gli altri personaggi sono solo dei satelliti che ruotano attorno alla protagonista, lasciandola sostanzialmente sola nella maturazione della sua tragedia, ancora più amara se si considera l’assenza di un idealismo filosofico (fortissimo, ad esempio, nel Tristan di Wagner) che possa garantire una metafisica validità al sacrificio d’amore.
Questo dramma che quindi è prevalentemente psicologico e non “d’azione”, che mette in scena il travaglio di un’anima, piuttosto che le azioni dei protagonisti, offre al compositore la possibilità di evocare musicalmente con finezza psicologica una miriade di sentimenti fluttuanti nel segreto della vita interiore della protagonista. E Puccini si rivela un maestro nel ricreare, in maniera direi quasi ossessiva, le più fini nuances di emozioni e sentimenti.
Per raggiungere questo obiettivo il musicista opta per una organica, compatta e continua evoluzione drammatica del dettato musicale, incorniciando il proprio stile vocale, sempre più vicino al parlato della quotidianità, in una sintassi che rinuncia ai pezzi chiusi di ascendenza ottocentesca ed avvalendosi, per fini espressivi di innovazioni lessicali (scale pentafoniche ed esafoniche, armonie vaganti collegate più per giustapposizione di sonorità che per necessità grammaticale) e soprattutto di un eccezionale colore orchestrale, ammirato anche da Gustav Mahler e Maurice Ravel.
Un esempio della enorme capacità di espressione della musica di Puccini, di cui Madama Butterfly è ricchissima, pressoché in ogni suo angolo, è la conclusione dell’opera: un accordo di sol maggiore rivoltato che piomba come una scure sulla regione di si minore, in cui la musica si trovava, creando un’impressione di disagio e di dissonanza inaspettata. L’ultimo interrogativo dell’opera: Butterfly si sacrifica affinché il figlio vada a vivere con il padre proprio in quella società che ha così duramente schiacciato la protagonista. E se il suo estremo sacrificio fosse stato vano?
Nella fucina del compositore: le quattro Butterfly
Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904: la prima di Madama Butterfly si rivela un clamoroso fiasco. Per Puccini fu un fatto inaspettato: durante le prove il direttore, i cantanti e l’orchestra erano tutti rimasti soddisfatti; solo Toscanini aveva presagito il disastro, con una sua tipicamente pittoresca frase (“Andrete al macello!”) detta dopo aver constatato certe lungaggini dell’opera.
La partitura fu ritirata e ripresentata in pubblico, con alcuni ritocchi, il 28 maggio 1904 al Teatro Grande di Brescia dove ebbe successo. Puccini, ancora insoddisfatto, ne realizzò altre due versioni che furono rappresentate a Londra nel 1905 e a Parigi nel 1906. Quest’ultima è quella che viene abitualmente eseguita. Nella prima versione di Milano Pinkerton ha un carattere spiccatamente cinico; già nella seconda versione di Brescia viene introdotta l’aria finale “Addio fiorito asil” al posto del più freddo “Mi passerà” della prima, per bilanciare anche gli altri espliciti elementi antinipponici che verranno eliminati solo nell’ultima versione.
Sia a Milano che a Brescia ha molto spazio la figura di uno zio di Cio-Cio-San, Yakusidé, un grottesco personaggio di ubriacone. Il successo di Brescia, poi, è dovuto principalmente alla scissione del secondo atto in due e quindi l’alleggerimento complessivo dell’opera, nonché alle raffinate modifiche musicali introdotte all’entrata in scena di Butterfly nel I atto.
Nelle successive edizioni di Londra e Parigi svaniscono poco a poco le apostrofi esplicitamente antinipponiche di Pinkerton e lo zio beone si riduce alla sola presenza tra la parentela e alla battuta: “Vino ce n’è?”. Kate Pinkerton, la vera moglie americana, perde gran parte del suo spazio, diventando una vaga presenza, per questo ancor più tragicamente incombente.
Il travaglio compositivo di quest’opera è un segno tangibile dello sforzo di Puccini di rendere la propria opera conforme ai propri imperativi estetici; dovrebbe bastare questo a rivalutare la sua figura di compositore, troppo spesso giudicata con semplicistica sufficienza.
Pubblicati in “Il Loggione Peloritano”
periodico di cultura-arte-spettacolo
Anno XII Numero 3, ottobre 1997