Pierre Boulez: non solo direttore
dall’esperienza del concerto al lavoro del compositore
Il principale evento della stagione musicale messinese è stato probabilmente il sensazionale concerto diretto da Pierre Boulez tenutosi al Teatro Vittorio Emanuele, durante il quale il maestro francese ha dato un’altra prova delle sue doti di originalità e genialità interpretativa; il programma era costituito da due opere di Igor Stravinsky (nella foto a sinistra), tra cui la formidabile Le Sacre du Printemps, momento capitale della storia della musica del nostro secolo, cui Pierre Boulez ha dedicato i suoi sforzi di acuto saggista. Quest’ennesimo successo nel campo della direzione d’orchestra, mette sicuramente in ombra però, agli occhi del grande pubblico, il fatto che Pierre Boulez non è solo un geniale interprete, ma soprattutto un compositore e che come tale ha segnato la storia della musica del nostro secolo, diventandone uno dei massimi protagonisti; il maestro francese è, infatti, sull’onda del successo compositivo sin dal lontano 1945, anno in cui Yvette Grimaud eseguì il ciclo delle Douze Notations per pianoforte: è la prima ed incondizionata adesione di Boulez ventenne alla tecnica del serialismo dodecafonico, eredità di Anton von Webern (foto a destra), il compositore allievo di Schoenberg insieme con Alban Berg, che diventerà dagli anni cinquanta in poi il modello, il punto di riferimento dei giovani compositori.
Le Notations sono un piccolo ciclo di dodici pezzi per pianoforte, tutti di dodici misure ciascuno, che alternano momenti contemplativi e momenti di bravura pianistica; il numero dodici diventa quindi l’elemento unificatore, la cellula germinale di ogni livello della composizione, della sua macrostruttura come della sua microstruttura. Con questa composizione il maestro francese s’incammina lungo un percorso che lo porterà alla realizzazione di un modello compositivo che si basa sulla autogenerazione della scrittura musicale a partire da materiali di base minimi. Il punto di approdo di questo cammino è rappresentato principalmente dalle Structures per due pianoforti, opera in cui, partendo da un materiale di base tratto da un lavoro di Messiaen (foto a sinistra), la tecnica seriale guida le evoluzioni non solo delle altezze dei suoni ma anche delle durate e delle intensità, nonché dell’intera struttura musicale. Quest’opera rappresenta allo stesso tempo il culmine di un procedimento compositivo ed un vero e proprio vicolo cieco: il compositore trova il suo limite nella possibilità di realizzare esclusivamente un progetto musicale, che detta ogni aspetto della composizione, eliminando completamente qualunque apporto imprevedibile della fantasia.
Dopo cinque anni di meditazione condotta prevalentemente sulla figura poetica di Mallarmé e sulle innovative teorizzazioni dell’opera aperta, discusse con noti studiosi come Umberto Eco e musicisti come Pousseur e Berio (nella foto a destra), Boulez trova finalmente la sua strada che lo porta ad una nuova fase compositiva nettamente differente dalla precedente; mentre infatti prima del 1952 il maestro francese era nettamente convinto dell’impossibilità di comporre a prescindere dalle strutture basate sulla serie dodecafonica, con l’opera Le Marteau sans maître per contralto e sei strumenti il pensiero compositivo comincia ad affiancare alla lucidità della scrittura flessibilità ritmiche e finezze timbriche sia di natura esotica sia di natura tipicamente francese. Il passo successivo della creatività di Boulez consiste nell’apertura all’indeterminatezza del contributo creativo dell’interprete; nascono così opere come la Terza Sonata per Pianoforte, Pli selon Pli e soprattutto …Explosante-fixé…
in cui il compositore crea dei percorsi musicali che l’esecutore dispone, relativamente, a suo piacimento trasponendo così in campo musicale la tendenza tipica di molte forme d’arte moderna che si basano sul montaggio di materiali diversi. In realtà il maestro francese compie un percorso veramente particolare lungo tutto l’arco della sua carriera.
Da una mentalità essenzialmente costruttivista di natura tipicamente pessimista nei confronti della libertà della fantasia, si passa ad un universo sonoro in cui il fattore umanistico sembra prendere il sopravvento. Come può dunque spiegarsi un cambiamento così radicale? Le radici di questo ripensamento sono da ritrovarsi proprio nelle teorizzazioni dell’opera aperta; l’attività del direttore d’orchestra e più genericamente dell’interprete è, infatti, un approccio “aperto” alla scrittura del passato: la figura dell’interprete, infatti, facendo da tramite tra il compositore ed il pubblico, apporta novità allo stesso pensiero contenuto nell’opera, sempre in ogni caso nel rispetto del suo dato grafico; Boulez, evidentemente convinto di ciò, porta la propria lucidità costruttivista all’interpretazione delle grandi opere di repertorio ed allo stesso tempo la riconsiderazione generale della musica precedente alla rivoluzione seriale degli anni Cinquanta mitiga le sue posizioni estremistiche che lo avevano portato a negare qualunque forma di composizione musicale che non fosse ispirata alla serie; con la possibilità di approfondire i capolavori della letteratura musicale del passato Boulez ha così la possibilità di ispirare in un certo senso il proprio lavoro di scrittura all’umanesimo del passato.
Vi è quindi una linea che dal presente del compositore si estende alla lettura del passato ed un’altra che dal passato accende nuovi momenti nel presente del compositore.