Anni fa ho dedicato molto tempo al jazz e anche a riprodurre al pianoforte ciò che ascoltavo, esplorando ciò che questa musica aveva da dire, principalmente nel fraseggio e nell’armonia, ma ben presto fu un percorso che si esaurì, non vedendo personalmente sbocchi nell’evoluzione del linguaggio. Cos’era che mancava principalmente alla mia esperienza jazzistica ovvero a come personalmente vedo l’estetica del jazz? La risposta mi fu chiara col tempo: la possibilità di meditare sull’idea e la strutturazione del pensiero, che se pure possono avere uno spunto dall’improvvisazione, ma difficilmente possono in essa trovare la conclusione.
Personalmente ritengo che nella creazione confluisca quanto di più inconscio e profondo ci possa essere e vedo con occhio diffidente tutti coloro che esauriscono la composizione musicale in un semplice sviluppo del potenziale del materiale, tuttavia non riesco a concepire una musica che evada completamente dalla notazione e dalla riflessione (e spesso dalla lotta) che ciò comporta.
La composizione non può prescindere dalla strutturazione delle idee e dalla riflessione attraverso l’elaborazione e la scrittura che hanno come diretta conseguenza l’esatta presentazione attraverso un codice comune di un pensiero espresso attraverso un mezzo musicale, procedimento complesso che alla fine porta anche alla possibilità di riproduzione di quella complessità attraverso l’interpretazione, ultimo ma non meno fondamentale anello della catena.
Un momento della storia del jazz ha visto una fioritura di alcuni esempi di contatto fra un certo idioma e la strutturazione compositiva che ho prima cercato di riassumere ed è stato nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, con la bellissima esperienza dei tre album che Miles Davis ha realizzato assieme a Gil Evans: Miles Ahead, Sketches of Spain e Porgy and Bess.
Era il periodo del cosiddetto Cool jazz, una nuova esperienza che si lasciava alle spalle tutte le esperienze “calde” degli stili precedenti verso un nuovo genere. Non è tanto l’idea del freddo o del caldo che interessa in questa discussione, bensì il fatto che il jazz diventi, nell’esperienza di Miles Davis e Gil Evans, come la cosiddetta musica classica, un pensiero strutturato dalla notazione, con dei connotati linguistici ben precisi, pur lasciando grande spazio agli interpreti anche con la presenza dell’improvvisazione, cosa comunque non aliena dalla musica classica contemporanea, come nelle eccezionali partiture di Lutoslawski.
Curiosando su YouTube è possibile trovare un estratto di una registrazione video in cui una compagine orchestrale, innovativa per il jazz dell’epoca, diretta da un informale Gil Evans, con Miles Davis al flicorno solista, propone due brani dall’album Miles Ahead. Una musica di più alto livello rispetto alle normali esecuzioni jazzistiche, dato proprio dalla struttura che incornicia l’inventiva.
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E come la musica colta basata sulla scrittura, è possibile a distanza di anni ricreare, reinterpretare, far rivivere il pensiero. I brani disponibili su YouTube inseriti qui sotto sono nuove e pregevoli esecuzioni dell’album Miles Ahead; il jazz esce dalla sua effimera vita, seppure nei migliori esempi pregevole, per salire a un grado più elevato.
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