Ho letto con interesse, ma non senza alcune perplessità, la notizia del concerto che l’Orchestra Sinfonica del teatro Mariinsky di San Pietroburgo ha tenuto il 6 maggio scorso nell’antico anfiteatro romano di Palmira, la città della Siria centrale che è stata protagonista della furia distruttiva e omicida dell’Isis e che il mese scorso è stata conquistata dall’esercito di Assad, con il decisivo intervento delle forze russe. Fra queste splendide testimonianze del passato passaggio dei Romani, lo ricordiamo, i terroristi del “Califfo nero” hanno perpetrato terribili delitti poi trasmessi in tutto il mondo e lo stesso patrimonio archeologico, magnifico nella sua conservazione, è stato più volte deturpato con sistematicità.
Protagonista del concerto, fra le comprensibili imponenti misure di sicurezza, dovute anche al fatto che a pochissima distanza dal sito ancora si combatte e imperversano i bombardamenti, il maestro russo Valery Gergiev, grande direttore d’orchestra di indiscusso valore artistico, nonché grande amico e sostenitore di Vladimir Putin, non nuovo a queste manifestazioni culturali a ridosso di eventi di guerra.
Proprio lo stesso presidente è apparso su un grande schermo, davanti al pubblico composto prevalentemente da soldati russi, civili siriani, rappresentanti di alcuni governi, tra i quali Francia, Serbia, Perù e Siria, e dell’UNESCO e alla presenza del ministro della cultura russo.
Putin ha espresso la propria gratitudine nei confronti di coloro che si impegnano attivamente nella lotta contro il terrorismo e ha salutato questo concerto, intitolato “Preghiera per Palmira. La musica dà vita alle antiche mura“, come un «un simbolo di gratitudine, memoria e speranza».
A ulteriore conferma del marchio esclusivo di questo concerto, il programma, anch’esso quasi interamente russo, con musiche di Bach, Shchedrin e Prokofiev.
Poco da eccepire da un punto di vista formale, per questo segno di riconquista di un prezioso luogo simbolo della cultura e della storia affermato tramite il concerto, ma molte sono le perplessità dal punto di vista della sostanza.
Che il concerto si configuri come un simbolo auto celebrativo della “Grande Madre Russia” appare innegabile, del tutto simile del resto a eventi simili del passato. Confermato dalla diretta televisiva dell’emittente di stato di Mosca che ha diffuso le immagini del concerto alternandole con quelle delle truppe militari russe impegnate attivamente a sostegno della liberazione di Palmira. Ricorda le operazioni “culturali” come l’Ouverture 1812 di Čaikovsky o Alexander Nevskij, il film del 1938 di Ejzenštein con musiche di Prokofiev, che però appartengono a un passato che al giorno d’oggi forse avremmo voluto superato.
La musica quindi è stata di fatto spogliata del suo profondo significato di linguaggio universale simbolo di fratellanza fra popoli e culture diverse, di pace e armonia nella bellezza, per ridursi a strumento di propaganda di un’operazione, fra l’altro, sulla quale si addensano pesanti nubi e responsabilità più o meno occulte della nazione organizzatrice ma anche di tutta la comunità internazionale.
La questione infatti non è tanto la matrice russa di questo evento, quanto l’evento in sé, concepito in maniera unilaterale, propagandistico, parziale, perché non decisivo e soprattutto, ripeto, in un clima tutt’altro che chiaro per quanto concerne le responsabilità internazionali.
La condanna ferma del terrorismo e l’impegno del mondo della cultura devono sicuramente prendere le distanze da qualsivoglia intento di auto celebrazione nazionalistica e quindi operare a un livello sovranazionale ed esprimere chiaramente un ideale universale tramite un linguaggio anch’esso universale e così da tutti espresso e recepito. Diversamente, pur nella validità dell’esito artistico, si ricondurrà il tutto a una insanabile frattura che in questo caso porta alla perplessità e poi all’oblio se non alla diffidenza, nel caso invece di un “prodotto” artistico occorre del tempo e una oggettivizzazione per liberarlo da scomode sovrastrutture.
Ma la modernità, purtroppo, è fatta di immagine, non di ideale, e questo in tutti i campi, nel bene e nel male, e anche fra le “vie di mezzo”, che rasentano l’una e l’altra parte.