Ogni volta che mi si presenta l’occasione, spinto da una motivazione determinata, ritorno a immergermi nelle letture verdiane, in primis naturalmente nelle partiture ma anche nei i vari testi di critica dedicati a questo autore che abbondano nella mia personale biblioteca; e ogni volta ancora di più mi appassiona questa grande personalità artistica, la sua profondità e le peculiarità di ognuna delle sue opere.
Questa volta l’occasione era veramente d’eccezione e l’opera da riconsiderare ancora una volta un grandissimo capolavoro, sicuramente nel cuore di tutti i melomani: l’Aida messa in scena per l’inaugurazione della stagione operistica del Teatro alla Scala di Milano il 7 dicembre 2006.
Premetto che quanto ho da dire prima di tutto si riferisce all’autore, che sopra ogni altro continua a meritarsi il plauso perenne e incondizionato al di là delle stelle che sulla sua musica costruiscono i propri castelli interpretativi (ma d’altronde la musica vive dell’interpretazione e senza di essa sarebbe appannaggio di pochissimi eletti) e in secondo luogo esclusivamente alla resa musicale, in quanto della – dicono – bellissima messa in scena di Franco Zeffirelli non ho potuto che assaggiare solo qualche fotografia e qualche brevissima sequenza che gli avari telegiornali ci hanno mostrato tra un’intervista a Romano Prodi o al premier tedesco Angela Merkel (sua ospite) o a tutti i vari vip i cui volti usurpano ogni volta tanto spazio allo spettacolo vero.
Sorvoliamo sul poco professionale abbandono di Alagna alla seconda rappresentazione e concentriamo l’attenzione su alcuni punti fondamentali. Mi sembra importante sottolineare che ancora una volta è l’Aida di Verdi a trionfare al di là di ogni speculazione, di ogni sovrastruttura e di ogni parere; questa prima alla Scala è stato un successo annunciato: un grande kolossal firmato Franco Zeffirelli, tant’è che l’Aida è diventata l’Aida di Zeffirelli. Oggi lo strapotere del regista nella lirica (dovuto ad un notevole calo delle altre componenti che cooperano alla perfetta riuscita di uno spettacolo d’opera) ha portato a sgradevolissime ostentazioni e ad un cattivo gusto interpretativo che per esempio culmina nella sostituzione dei dialoghi del Flauto Magico di Mozart con quelli più ad effetto di Baricco che finiscono per diventare l’elemento centrale di uno spettacolo (checché ne dica l’autore stesso che si schermisce davanti alle telecamere) che invece dovrebbe giustamente sparire per far vivere in tutta la sua pienezza il genio mozartiano. E anche a Milano l’Aida diviene una spettacolarizzazione incredibile che spesso travalica le buone intenzioni degli stessi interpreti.
Ma allora cosa c’è di straordinario se non la magia con cui Verdi ancora una volta si impone in maniera determinante sui gusti mutevoli di una società come quella italiana ormai appiattita dal gusto per la fiction e le polemiche pretestuose sui personaggi del reality show. Aida si staglia in tutta la sua magnificenza: un’opera complessa che quasi morbosamente sovraccarica la ieraticità e la fissità dei tipi inscenati di una sapiente maestria compositiva che riesce a toccare tutte le corde con una tavolozza timbrica e di effetti estremamente variegata, passando in maniera disinvolta attraverso tutti i registri possibili e immaginabili, dal più intimo al più trionfale, dal più nobile al più “normale”. Un’opera che in ogni sua pagina dimostra una consapevolezza di scrittura che si fa dimenticare dietro una drammaturgia musicale assolutamente necessaria e inevitabile e che trionfa semplicemente perché ha in se stessa le ragioni del suo successo, permettendo di far vivere quasi come accessorie tutte le speculazioni sullo spettacolo del momento.
Sono rimasto ad ascoltare l’Aida dallo streaming in diretta di Radio TRE e devo dire che ho potuto ancora una volta (seguendo la partitura) appassionarmi a quest’opera che dimostra ogni volta la sua freschezza e la sua bellezza.
Negli intervalli ho ascoltato con attenzione quanto ha detto ai microfoni dell’emittente radiofonica il direttore d’orchestra Riccardo Chailly, a mio giudizio il vero grande protagonista anche se forse troppo messo in ombra dal “contorno”; più volte il maestro si è riferito a Gustav Mahler e alle influenze che anche Aida avrebbe avuto sul compositore mittel-europeo.
Tralasciando la necessità (almeno così mi è parso di capire) di far apprezzare Verdi a Mahler che sarebbe così il deus ex machina della musica del XX secolo (se a Mahler non fosse interessato niente, forse sarebbe cambiato qualcosa? e lo dico da convinto sostenitore della musica del boemo…), se c’è un qualcosa che sicuramente accomuna i due è la capacità di costruire un mondo uno all’interno di un’opera lirica l’altro all’interno di una sinfonia e in questo mondo di far convivere tutti i suoi aspetti: nihil humanum alienum a me puto, tutto ciò che è sinceramente umano entra nel mondo e solo così si viene a capo della maestosità della marcia trionfale del secondo atto che convive con i momenti più intimi a partire dallo splendido inizio dell’opera, passando attraverso la musica in riva al Nilo e alla liebestod dei due protagonisti, vera summa romantica dell’opera.
L’Aida – e in generale tutta l’opera di Verdi – riassume in sé quanto di umano prorompe all’interno dell’esistenza, dalla vanagloria alla più intima e tremenda solitudine e la trasfigurazione (chiamiamola pure in questo caso veramente liebestod all’italiana) è affine alla verklaerung che l’estetica tardoromantica del centro-Europa avrebbe di lì a poco riversato in tutta la sua problematicità verso l’universo del Decadentismo. E Verdi ammanta tutto con una scrittura e una coscienza musicali che sono veramente pienamente compiuti tanto più la tecnica compositiva si dissolve dietro l’apparente ovvietà e necessità di quanto si ascolta: quando ci si concentra sul risultato e si dimentica la tecnica è perché l’opera è perfettamente riuscita; avviene così che anche “la melodiaccia di Verdi” (come ostentatamente Zeffirelli chiama la marcia trionfale) in realtà è un qualcosa che comunque sottende una profonda sapienza compositiva ed entra nel cuore dell’ascoltatore come un qualcosa di ovvio mentre non è affatto scontata come spesso la si liquida; allo stesso modo in Aida (che pure è popolarissima presso i melomani di tutto il mondo) Verdi fa passare per “semplici e orecchiabili” procedimenti melodici a volte anche cervellotici giustificati dall’orientalismo del soggetto e nel conclusivo momento della morte d’amore dei due (ricordo che Aida, come Tristano, causa la sua morte seppellendosi – inebriata da questo suo supremo atto di libertà e volontà – con l’amato Radames) la melodia che sicuramente è fra le più conosciute e amate di Verdi si basa su un ostico (per l’orecchio comune) intervallo di settima maggiore che magicamente diventa ovvio e cantabile… e gli esempi potrebbero continuare.
Un grazie quindi a Chailly che con grande coscienza di interprete è andato alla ricerca della profondità della scrittura e del pensiero di Verdi, dando una lettura che ne sottolinea la vera modernità del linguaggio e lasciamo da parte il kolossal, la necessità di ubriacare l’opinione pubblica con uno spettacolo che fa dimenticare le tristi congiunture dell’opera lirica nel nostro paese, le affermazioni sulla perfezione fatte da chi certo magari apprezza l’opera ma forse non è la persona più qualificata per esprimere giudizi in materia e lasciamo anche da parte la scarsa professionalità di chi cerca il gesto polemico spettacolare, senza ricordarsi che prima di tutto viene il rispetto per l’opera e per il suo autore e l’umiltà che bisogna dimostrare di fronte alle più profonde conquiste umane che rimangono un nostro patrimonio comune e che fanno prorompere ancora una volta “Viva Verdi!“, grazie, Maestro, per quanto ci hai lasciato!